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Incentivi al Fotovoltaico, come stanno davvero le cose?

17 Ott

[Di Luca Francesconi]

In questa breve analisi parleremo del settore del fotovoltaico (molto in voga  in questi anni, rappresentato spesso come la panacea ai cronici problemi energetici italiani) per spiegare come, al di là delle apparenze, l’utilizzo degli incentivi spesso non rappresenti la soluzione migliore per noi consumatori. 

Premetto anche che non sono contro le rinnovabili ma, dal mio punto di vista, trattandosi di un settore recente e in via di sviluppo trovo che sia molto facile scambiare lucciole per lanterne.

Fatta la dovuta premessa partiamo con l’analisi.

Il Settore

Gl incentivi hanno dato la spinta necessaria a farci raggiungere la secondo posizione in Europa (dietro alla Germania) come produttori di energia elettrica derivante da fonti solari. 

Con un totale di 12 GW di capacità installata piano piano lo stato italiano sembra aver introdotto un percorso di indipendenza dalle classiche fonti non rinnovabili (petrolio, gas, carbone e uranio). 

Questo da un certo punto di vista può essere un punto su cui molti possono trovarsi d’accordo. Peccato che, come spesso avviene in Italia, anche se le intenzioni sono buone si finisce con l’utilizzare mezzi che finiscono col creare più danni dei problemi che si tenta di risolvere.

I numeri

I sedici gigawatt menzionati prima (destinati ad aumentare ancora) vanno di pari passo con oltre dieci miliardi di incentivi (anche questi destinati a salire a circa dodici miliardi entro il 2016) concessi dallo stato (quindi da noi) per installare un impianto fotovoltaico: senza questi soldi, probabilmente il settore non avrebbe avuto questo piccolo “boom”.

A queste cifre vanno aggiunte le circa 500.000 imprese che negli ultimi anni si sono affacciate nel settore e hanno iniziato ad operarvi.

Numeri da capogiro, che fanno capire anche come il settore fotovoltaico sia essenzialmente un gigante dai piedi d’argilla tenuto in piedi grazie alla droga-incentivi che lo stato inietta nel sistema.

Chi paga tutto questo?

Sostanzialmente noi: con un costo dell’energia già ai massimi rispetto all’Europa, tutto il sistema degli incentivi al fotovoltaico va ad appesantire la nostra bolletta sia per la natura stessa di questi aiuti (se un qualcosa costa 10 puoi anche farlo pagare 8, ma la differenza qualcuno la deve mettere per forza) sia perchè il fotovoltaico ha dei costi accessori in quanto fonte non continua di energia.

Gli oneri generali in bolletta (nei quali sono considerati gli incentivi) sono aumentati del 260% dal 2004 ad ora: ecco come lo “sconto” rientra.

Per le nostre tasche il fotovoltaico ha avuto un effetto negativo, invece che positivo!

E’ giusto il sistema degli incentivi ed un ricorso così massiccio? No!

Il fatto che uno stato concordi con alcuni settori particolari degli incentivi dal mio punto di vista non è uno stato equo. I soldi degli incentivi potevano essere usati in altro modo, abbassando il cuneo fiscale o la tassazione sulle imprese, invece che andarli ad usare per aiutare un solo settore (per quanto “green”). 

Inoltre è opportuno ricordare che gli incentivi finiscono con il creare dipendenza (un po’ come le droghe, no?), sviluppando un mercato “anormale” tenuto in vita soltanto con gli aiuti pubblici.

Purtroppo gli sgravi e gli incentivi rappresentano per la classe politica una ghiotta occasione per condizionare l’elettorato (pensate che bella pubblicità sia poter affermare che “500.000 imprese lavorano nel settore del fotovoltaico” e che “nel settore del fotovoltaico siamo secondi in europa”). 

Come al solito quindi, dopo le promesse dei burattinai e dopo aver festeggiato tutti insieme, resta il conto da saldare. Che, manco a dirlo, sarà pagato sempre e solo dal povero contribuente…

Luca Francesconi

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incentivi-fotovoltaico

Il caso Alitalia: Un’occasione mancata

30 Set

[di Luca Francesconi]

A seguito degli ultimi sviluppi della vicenda Telecom, come ciclicamente succede ogni volta che una azienda di casa nostra viene messa in vendita, vediamo campeggiare sulle principali testate giornalistiche titoli altisonanti come Italia in svendita, oppure Vendiamo i gioielli di famiglia.

Molti italiani infatti hanno la strana concezione che prima di vendere un’azienda a imprenditori stranieri sarebbe d’obbligo tentare di comprarla con i soldi pubblici, magari tramite C.d.p. (la mano imprenditoriale del ministero dell’economia), oppure di affidarla, anche a condizioni peggiori, a un imprenditore nostrano, al fine di difendere il patrimonio nazionale.

La storia invece ci insegna che quando viene annullato il mercato e di conseguenza protetto qualcuno (spesso raccomandato dalla politica) andiamo incontro al disastro più completo, soprattutto per le tasche dei contribuenti.

Il caso Alitalia, oltre che abbastanza recente, rappresenta a mio parere un esempio lampante di come spesso vendere al miglior offerente, anche se straniero, rappresenterebbe la soluzione migliore.

Alitalia, posta in amministrazione controllata  il 26 agosto 2008, è stata acquisita dalla cosìdetta C.A.I. (Compagnia Aerea Italiana), fortemente voluta dall’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ricordate?

“Un paese turistico come l’Italia non può restare senza un vettore nazionale. Air France porterebbe i turisti a visitare le bellezze francesi…” 

“Su Alitalia rifarei la stessa scelta: il nostro paese non può non avere una compagnia di bandiera. Fosse caduta nella mani di Air France, conosco bene i francesi, tanti turisti sarebbero finiti a visitare i castelli della Loira invece che la nostre città d’arte…”


Con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro e il patrimonio nazionale, la cordata di imprenditori guidata dal sig. Colaninno impedì a Air France (la quale si sarebbe presa tutta Alitalia, debiti compresi!) di acquisire la maggioranza delle azioni, costituendo C.A.I. e prendendo in gestione la compagnia italiana.

Il bello è che i debiti di Alitalia sono stati scaricati sui contribuenti, poiché C.A.I. non ha acquisito totalmente la compagnia ma soltanto le parti più importanti e redditizie, lasciando la patata bollente (debiti ed esuberi) allo stato.

Risultato?

Pochi giorni fa la gestione C.A.I. Ha fatto i conti del quadriennio 2008-2012 e le cifre che sono venute fuori sono spaventose: tutti i bilanci annuali in rosso, erosione di circa 800 milioni di euro di patrimonio netto e una perdita quotidiana di circa 630 mila euro.

Agli italiani l’accollarsi della parte marcia di Alitalia è costato 4 miliardi di euro, l’equivalente di circa quattro manovre sull’IVA.

A conti fatti, non era meglio vendere Alitalia a Air France invece che tenerla in vita in nome di una presunta italianità, sostenendo di fatto una finanza che privatizza gli utili e statalizza le perdite?

Luca Francesconi

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Costi della politica, non cediamo a facili populismi

11 Apr

[di Luca Francesconi]

Uno dei principali punti di scontro tra le varie forze politiche nonché uno dei cavalli di battaglia del Movimento Cinque Stelle è la riduzione dei costi della politica, tema che in tempi di crisi e di ristrettezze economiche non fa che aumentare in una parte del potenziale elettorato il sentimento di rifiuto verso una classe dirigente che sembra incapace di adeguarsi alla realtà e di calarsi nella società vera e propria.

Pur ritenendo l’eccessiva onerosità della macchina pubblica un problema, dal mio punto di vista  non è il caso di scadere nel facile gioco del “tutti a casa”. Occorre invece una approfondita analisi per capire quali sono i costi da tagliare e quali invece rappresentano valori perfettamente in linea con gli altri paesi europei.

In quest’analisi ci viene in aiuto un interessante studio dell’Istituto Bruno Leoni (clicca qui per scaricare il PDF completo), che offre un ottimo focus per capire dove sia necessario intervenire per diminuire la spesa e dove invece i tagli non garantirebbero grossi risparmi.

Partiamo con un dato: l’Italia spende  l’1% in più di PIL (circa 10-15 miliardi) rispetto agli altri paesi europei per la propria classe dirigente.

Tuttavia, questa maggiore spesa non viene da uscite, quali vitalizi, rimborsi e indennità come spesso i media ci fanno credere, bensì dal normale funzionamento dell’organo statale.

Si evince quindi che il problema riguardante i “vari” bonus di cui godono i politici in fin dei conti non crea grossi problemi al bilancio dello stato (è una questione più morale che economica). A crearli invece, fatto che ritengo ancora più grave, è il normale ciclo della funzione pubblica (legislativa, esecutiva e diplomatica).

In Europa si tratta di un caso sostanzialmente unico, poiché a livello di spesa in assoluto siamo secondi a quota 39 Miliardi, superati solo dalla Germania, paese con una ben diversa situazione economica.

IBL poi illustra una serie di voci di spesa che a mio modo di vedere si possono suddividere in due categorie: quelle sulle quali si può facilmente intervenire in tempi stretti e quelle che non è possibile intaccare nel breve periodo con tagli orizzontali fatti senza un preciso programma di azione.

Facciamo qualche esempio: al primo tipo appartengono le spese per il Parlamento e per il Quirinale, costi che appaiono esagerati (e di molto!) rispetto agli altri paesi della zona euro.

Si pensi che lo stipendio medio di un politico italiano vale cinque volte il reddito mensile medio italiano (in Francia invece ne vale tre volte); a questo vanno poi sommati rimborsi, vitalizi e quant’altro, voci che gli sfortunati politici francesi non conoscono.

Continuando il paragone con il paese transalpino troviamo che, a fronte di ben altri poteri, l’Eliseo costa ai nostri cugini circa 112 milioni di euro, mentre noi per il nostro “caro” (è proprio il caso di dirlo) Napolitano ne spendiamo 349, avendo oltretutto anche il doppio del personale.

Al secondo tipo invece appartengono costi come quelli per le auto blu, che costano globalmente circa 1,1 miliardi di euro. Ecco che a questo punto all’italiano medio viene da dire «tagliamo le auto  blu e risolviamo il problema dell’economia!».

Purtroppo non è così semplice, perché in realtà se andiamo ad analizzare le componenti di questo miliardo, scopriamo che circa 800 milioni vengono spesi per i 19.000 dipendenti (tra autisti e personale di servizio) assunti per far circolare i mezzi. Di conseguenza, tagliando di netto le auto blu, si eliminerebbe soltanto una piccola parte del costo.

Concludendo, con questa breve recensione sul focus di IBL intendo dimostrare che spesso in merito ai costi della politica si sentono declamare analisi e sentenze condotte con leggerezza e senza badare troppo ai calcoli, al solo scopo di guadagnarsi facilmente il consenso tra i cittadini.

Il processo di riduzione della spesa pubblica non può essere ricondotto a dei semplici tagli senza obiettivi, ma deve essere fatto innanzitutto con la consapevolezza di quello che andiamo a fare e su dove andiamo a intervenire.

Altrimenti ogni governo finirà col ricadere sempre nella stessa trappola, ossia tagli dei servizi utili senza risparmi netti e mantenimento delle inefficienze di cui, ahimè, è impregnata la macchina pubblica.

Luca Francesconi

 

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Toscana: via agli accorpamenti comunali

16 Lug

Con la nuova legge regionale di riordino istituzionale, in molti comuni medio-piccoli della Toscana nascono e crescono movimenti popolari a favore delle fusioni, fusioni che prevedono importanti incentivi economici oltre ai già previsti contributi ministeriali.

Tra i vari casi (Amiata, Montagna P.se, Casentino, Valdarno) spicca quello dell’isola d’Elba, che attualmente conta ben 8 comuni (Portoferraio, Campo nell’Elba, Capoliveri, Marciana, Marciana Marina, Porto Azzurro, Rio Marina e Rion nell’Elba) per un totale di appena 30.000 abitanti.

Sull’isola livornese è attivo un comitato per l’iniziativa popolare di legge regionale per la fusione (sito: http://www.comuneunicoelba.com ), che conta di poter iniziare presto a raccogliere le 5000 firme necessarie per formalizzare la richiesta e dare il via al referendum.

Ora, al di là dei contributi e degli incentivi straordinari, non è difficile capire i vantaggi che l’unione in un comune unico potrebbe generare.

l’accorpamento delle strutture amministrative consentirebbe innanzittutto di liberare risorse economiche e di personale da destinare all’ampliamento ed al decentramento dei servizi. Inoltre, la fusione dei comuni può comportare un’accresciuta rappresentatività e forza nei rapporti istituzionali. Infine, la riduzione del numero di sindaci, assessori e consiglieri – oltre a ridurre l’esborso per gli emolumenti (cosa non certo secondaria) – imporebbe alle forze politiche una maggiore selezione degli amministratori.

Chi avversa la fusione invece non riesce a portare altrettanti argomenti validi: si parla di tutela delle peculiarità, di rapporti più stretti e familiari tra amministratori e cittadini, ma la realtà è che se un comune non ha un certo peso nelle istituzioni difficilmente può riuscire a far valere le proprie istanze. Meglio quindi, in mia opinione, un’amministrazione più distante ma allo stesso tempo più efficace, economica e qualificata.

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Manovra: tagli a senso unico

14 Lug

Il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia oggi si è espresso duramente contro la manovra Tremonti:

“E’ inaccettabile. Ci siamo un po’ stufati: c’è un Paese che va a rotoli e un gruppo di persone che continua a governare tutelando se stesso. La manovra va approvata, non ci sono dubbi; ma di fronte ai sacrifici veri che impone a tutti, quello che è inaccettabile è che dal punto di vista dei costi della politica è stato deciso di non fare niente. Dobbiamo dire a voce alta, insieme ai lavoratori, insieme a tutti coloro che hanno a cuore l’Italia, che siamo arrabbiati e non possiamo avere un pezzo di Paese che fa sacrifici e un altro pezzo di Paese che in un momento come questo non fa nulla”.

Un’esternazione forte, ma necessaria. Non c’è nessun dubbio sul fatto che la manovra vada fatta; ce ne sono molti invece sul fatto che a pagare debbano essere sempre gli stessi.

In particolare, per quanto riguarda i sacrifici, si parla di reintroduzione dei ticket sanitari, pensioni, blocco degli stipendi del pubblico impiego, tagli indiscriminati sulle agevolazioni fiscali e tagli imposti alle autonomie territoriali (alle regioni oltre 10 miliardi in due anni; ai comuni e province  1 miliardo nel 2011 e 2 miliardi nel 2012), solo per fare qualche esempio.

Positiva poi la stretta sull’evasione, percarità, ma il problema vero è che di tagli reali sui costi della politica non ce ne sono. Ed a pagare è sempre il cittadino medio. La casta, come dimostrato dall’emendamento sull’abolizione delle province, si considera un mondo a parte che non può e non deve essere toccato. Ma quanto si potrà andare avanti con queste manovre di rattoppo? sia chiaro infatti che difficilmente la stretta terminerà nel 2014, ahinoi.

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Emma Marcegaglia

Province: clamorosa autorete Pd

7 Lug

E’ difficile riuscire a comprendere il perchè dell’astensione Pd alla camera martedì scorso in merito alla proposta IDV sull’abolizione delle province, astensione rivelatasi poi decisiva in negativo per l’approvazione dell’emendamento.

La questione, al di là della proposta in sè, sicuramente lodevole ma con qualche angolo da smussare, aveva un forte carattere simbolico: dare finalmente un taglio ai costi della politica. In concreto, si trattava invece di dare un taglio ad un apparato statale multistrato che spesso si è rivelato fonte di insormontabili barriere burocratiche e di dare un taglio alla manovra Tremonti ,che avrebbe potuto essere alleggerita di una decina di miliardi di euro (salvando così qualche spicciolo di pensioni e stipendi).

Invece, nonostante il vento di crisi, nonostante il vademecum “rimbocchiamoci le maniche”, questi tagli il Pd non li ha voluti fare. Il motivo resta oscuro, visto che la sopressione delle province è (o era?) un cardine del programma democratico.

E non può bastare a spiegare il tutto la presunta importanza delle province in merito ai permessi urbanistici, come espressamente dichiarato a caldo da un Bersani sempre più confuso.

Una clamorosa autorete per il Pd dunque. E non è certo la prima che si registra in questi anni passati all’opposizione. L’ennesimo campanello di allarme per un elettorato sempre più inferocito. L’ennesima occasione persa di risparmiare sulla casta e non sulle tasche dei cittadini. L’ennesima perdita di credibilità.

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