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Il caso dimenticato di Sandro Esposito – Aiutiamo Lucia Uva

9 Apr

Riportiamo una denuncia e un appello in merito a malapolizia e abusi, un tema che in questo periodo sta finalmente iniziando a superare il tradizionale oscurantismo dei principali media.

SANDRO ESPOSITO. Per pochi casi sotto la luce dei riflettori, ce ne sono molti che di contro non riescono a emergere dall’ombra. Uno di questi è quello di Sandro Esposito, parà ventiseienne ucciso nel 2003 da sette agenti della polizia a Napoli. Sandro, giovane amante della patria e della divisa, era rientrato da poco dalla missione in Kosovo, missione che lo aveva profondamente segnato. Sandro viene fermato una mattina di giugno, era sotto l’effetto di cocaina. Confuso, cerca di scappare dalla volante, un gesto che lo condannerà alla morte. Lo fermano in sette, lo legano, lo fanno stendere, lo calpestano. Lo colpiscono con calci e pugni alla testa, lo colpiscono utilizzando anche un oggetto contundente. Morirà asfissiato, Sandro, a causa dell’eccessiva pressione sulla cassa toracica.

In tribunale sembra poterci essere giustizia, ma così non sarà. In primo grado gli agenti sono dichiarati colpevoli per omicidio preterintenzionale, ma in Appello in reato si trasforma in omicidio colposo. E poi c’è la Cassazione, che riduce i quattro anni di pena a un anno e sei mesi, che con la condizionale significa libertà. Un solo mese di sospensione per i sette, che ben presto sono tornati in servizio.

Finita qui? macchè. C’è anche la beffa:a casa della madre, Anna Rubinacci, arriva il conto del finestrino della volante rotto da Sandro nella fuga.

AIUTIAMO LUCIA. E’ stata attivata una piccola raccolta di fondi per consentire a Lucia Uva di pagare le spese legali per affrontare il processo sulla morte di suo fratello, Giuseppe, anche lui vittima della violenza delle forze dell’ordine. Lucia ha dovuto affrontare spese enormi, aiutiamola in questa lunga battaglia.

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Maltrattamenti all’asilo “Il gatto parlante” di Agliana – Video

20 Mar

Vi propongo un nuovo video servizio, come di consueto realizzato in compagnia di Stefano Carlesi, per analizzare la recente triste vicenda dei maltrattamenti all’asilo “Il gatto parlante” di Agliana.

Intervengono il sindaco di Agliana Eleanna Ciampolini e la psicologa Francesca Bardelli.

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Quando gli abusi non hanno confini – VIDEO

1 Mar

Spesso sulle pagine di questo blog ho denunciato casi di abusi e malapolizia nel nostro Paese, ma in questi giorni non possono e non devono lasciare indifferenti le notizie di due orrendi omicidi di stato avvenuti rispettivamente in Belgio e in Sud Africa. Soprattutto per i filmati choc che testimoniano i misfatti.

JONATHAN JACOB. 

I fatti risalgono al gennaio 2010, ma la notizia è uscita dall’ombra soltanto ora. Jonathan Jacob, 26 anni, è stato ucciso in una cella di Mortsel, in provincia di Anversa, dove era detenuto.

Nel video si vede Jonathan, completamente nudo, che sale sulla brandina rifugiandosi in un angolo, mentre ben otto agenti entrano nella piccola cella lanciando un razzo luminoso. In pochi secondi lo aggrediscono senza pietà a colpi di manganelli e scudi antisommossa. Viene letteralmente sommerso, senza possibilità alcuna di difendersi. Una violenza inaudita, brutale e soprattutto immotivata.

Alla fine resta soltanto una macchia di sangue sulla parete, mentre gli uomini somministrano al giovane un’iniezione. Poi, quando tutto finisce, un medico entra in cella. Ma è troppo tardi: Jonathan Jacob è morto, Jonathan Jacob è stato ucciso senza un perchè. 

L’autopsia ha stabilito che la causa del decesso di Jacob è stata un’emorragia interna, provocata dalle percosse ricevute dai poliziotti. Al momento però soltanto un agente è stato rinviato a giudizio.

MIDO MACIA.

Mido_Macia

Pochi giorni fa a Johannesburg Mido Macia, tassista di 27 anni, è stato trovato morto in commissariato. In precedenza Mido avrebbe parcheggiato in maniera tale da bloccare il traffico. A quel punto, sostengono fonti della polizia, avrebbe insultato un agente e estratto un’arma.

Allora i poliziotti lo hanno catturato, legandolo per le mani e attaccando la corda alla parte posteriore del loro furgone. Poi lo hanno trascinato in queste condizioni per 400 metri. Una barbaria che non può essere in alcun modo spiegata. 

Mido è deceduto nella cella della stazione di polizia dove è stato portato. Secondo l’autopsia la morte è avvenuta in seguito a un’emorragia interna, dovuta alle ferite riportate alla testa provocate con tutta probabilità dal trascinamento.

 

Né verità né giustizia per Marcello Lonzi

14 Mag

Fine della corsa. La corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato da Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, morto nel 2003 a ventinove anni nel carcere di Livorno.

Le foto parlano chiaro, così come le perizie mediche del dottor Salvi. Otto costole rotte, tre buchi in testa, numerose ecchimosi provocate da altrettante manganellate. Per non parlare del sangue sparso nella stanza, della strisciata rossa sul pavimento, segno inequivocabile che il corpo sia stato riportato nella cella dall’esterno. Un pestaggio finito male, come tanti altri.

Invece, per il pm Pennisi, fu infarto. Morte naturale. E quindi archiviazione dell’accusa di omicidio contro ignoti, confermata, manco a dirlo, anche in Cassazione.

Per l’Italia niente di nuovo, purtroppo. Un paese dove il reato di tortura non esiste, un paese che può vantare la più grande sospensione dei diritti umani dopo la seconda guerra mondiale, un paese dove ci si ricorda dei fatti del G8 solo grazie a un film ma sui quali siamo ben lontani da fare piena giustizia.

Ma, in Europa, ci si sarebbe aspettati che il ricorso fosse quanto meno discusso. Invece così non è stato. La macchia dell’omertà ha valicato i confini dello stivale e Maria Ciuffi non avrà mai giustizia per suo figlio. Morto per cause naturali.

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G8 Genova: la tortura non è reato

21 Lug

Sono passati dieci anni dai tragici fatti del g8 di Genova. Dieci anni dagli scontri, dalla morte di Carlo Giuliani, dagli assalti dei black bloc e dalle devastazioni che hanno causato, dalle inaudite violenze delle forze dell’ordine perpetrate nell’assalto alla scuola Diaz e nella caserma-lager di Bolzaneto.

“La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”: così si è espressa Amnesty International riguardo ai crimini commessi in quest’ultimo caso.

Il 5 marzo 2010 i giudici d’appello di Genova, ribaltando la decisione di primo grado, emisero 44 condanne per i fatti di Bolzaneto e, nonostante l’intervenuta prescrizione, i condannati hanno dovuto risarcire le vittime. Sempre Amnesty International ha sottolineato l’importanza della sentenza, aggiungendo però che la prescrizione sarebbe stata impedita se l’Italia avesse introdotto nel suo sistema penale il reato di tortura, come vi è obbligata dalla firma della Convenzione ONU contro la tortura del 1988.

Tale reato non era infatti presente nel nostro ordinamento né al momento dei fatti né al momento della sentenza, né ad oggi è stato ancora introdotto.

Una vergogna nella vergogna dunque, perchè essere costretti a derubricare queste inconcepibili, ingiustificate e terribili violenze come semplici “abusi di ufficio” per una falla nel sistema penale è davvero incomprensibile.

Secondo la definizione della Convenzione Onu, tortura è l’atto commesso da persona agente da pubblico ufficiale per “infliggere intenzionalmente” ad un’altra persona “dolore o sofferenze forti, fisiche e mentali”, al fine di ottenere informazioni o confessioni, di punirla, di intimorirla o di far pressione su di lei o su terzi, o “per qualsiasi altro motivo fondato su forme di discriminazione”.

Ora, giudicate voi (tratto da un articolo di Giuseppe D’Avanzo su La Repubblica):

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le “posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa”. La “posizione del cigno” – in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro – è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell’attesa di poter entrare “alla matricola”. Superati gli scalini dell’atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della “posizione” peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella “posizione della ballerina”, in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato “entro stasera vi scoperemo tutte”; agli uomini, “sei un gay o un comunista?” Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: “viva il duce”, “viva la polizia penitenziaria”. C’è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un “trauma testicolare”. C’è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. 

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella “posizione della ballerina”. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano “di rompergli anche l’altro piede”. Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. “Comunista di merda”. C’è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di “non picchiarlo sulla gamba buona”. I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi.

Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: “Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?”. S. D. lo percuotono “con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi”. A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: “Troia, devi fare pompini a tutti”, “Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte”. S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e “a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania”. J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua “posizione vessatoria di transito”, con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C’è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l’altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: “I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone”. Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.

B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: “E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci”. Poi un’agente donna gli si avvicina e gli dice: “È carino però, me lo farei”. Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell’unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all’accompagnatore. Che sono spesso più d’uno e ne approfittano per “divertirsi” un po’.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, “arrangiandosi così”. A. K. ha una mascella rotta. L’accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto “se è incinta”. Nel bagno, la insultano (“troia”, “puttana”), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: “Che bel culo che hai”, “Ti piace il manganello”.

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché “puzzano” dinanzi a medici che non muovono un’obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato “strattonato e spinto”.

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con “questo è pronto per la gabbia”. Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di “trofei” con gli oggetti strappati ai “prigionieri”: monili, anelli, orecchini, “indumenti particolari”. È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un’iniezione. Chiede: “Che cos’è?”. Il medico risponde: “Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!”. G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All’arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c’è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due “fino all’osso”. G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede “qualcosa”. Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

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